[Discussioni] Microsoft e lo shared source.

Adriano Sponzilli adriano.sponzilli a virgilio.it
Dom 13 Ott 2002 00:30:03 CEST


da ilmanifesto.it

MICROSOFT, LA SORGENTE DEL CONSENSO

Miglioramenti e innovazione grazie agli utenti-programmatori. Una
condivisione lontana dallo «spazio aperto» del freesoftware di Linux. La
nuova strategia dello «Shared Source Programme» spiegata da Fabio
Falzea, Peter J. Houston e Jason Matusow, dirigenti della società di
Bill Gates

di ARTURO DI CORINTO

 Via degli Uffici del Vicario, numero 43. Sede di Microsoft Italia a
Roma. L'invito è per un incontro informale con alcuni top manager di
Microsoft Corporation, nato dopo la lettura di una piccola inchiesta sul
«movimento del software libero» apparsa in settembre su queste pagine. I
manager arrivano tutti insieme: Fabio Falzea, direttore italiano del
Corporate Marketing, Peter J. Houston direttore delle strategie di
MS-Windows, Jason Matusow, responsabile dello Shared Source Programme di
Microsoft. Ad accompagnarli Jennifer Todd, analista di comunicazione
strategica per la Waggener Edstrom. Lingua dell'incontro: l'inglese. I
manager della Microsoft tengono a precisare che l'invito è «per uno
scambio di idee». E' chiaro però che il tema dominante riguarda Linux,
il sistema operativo che secondo molti analisti è diretto concorrente
con quello prodotto dalla società di Bill Gates, e la strategia per
contrastare il movimento del freesoftware. All'unisono i manager
affermano: «vogliamo prendere Linux molto seriamente. Perché
dall'esempio di Linux possiamo imparare». Ma come? Linux non era il
vostro tormento? «No, perché il nostro concorrente non è Linux ma l'Ibm.
Non crediamo che il grande pubblico passerà mai da Ms-Windows a Linux.
Però per competere meglio abbiamo avviato un progetto industriale di
condivisione del codice sorgente: la Shared Source Initiative». In altri
termini, la società di Bill Gates è preoccupata del fatto che L'Ibm
abbia scelto Linux per sviluppare i suoi programmi applicativi e che il
«valore aggiunto» è rappresentato dalla consulenza organizzativa.

 Il codice sorgente è l'insieme delle istruzioni che sono alla base del
funzionamento del computer e cos'è lo shared source ce lo spiega
Matusow. «Si tratta di un nuovo modello di licenza d'uso dei programmi
che permette ai clienti Microsoft l'accesso al codice sorgente pur
mantenendo la proprietà intellettuale nelle nostre mani. L'iniziativa -
continua il dirigente della Microsoft - è finalizzata a mettere la
Microsoft in condizioni di operare con più efficacia e rapidità e di
favorire la creazione di standard aperti per sviluppare nuove
applicazioni e potenziare i prodotti esistenti».

 Fin qui, niente di nuovo, se non la scelta di «aprire» i propri
programmi, una decisione che appare come un vero dietrofront nella
strategia commerciale della casa madre di Redmond. Con questa iniziativa
il grande monopolista riconosce infatti che la «trasparenza» del codice
consente agli utilizzatori di conoscerlo, studiarlo e quindi dà maggiore
garanzie nelle prestazioni e della sicurezza. Inoltre gli «utenti»
possono migliorarlo, rendendo più rapidi e meno costosi gli interventi
nella soluzione dei problemi che il software potrebbe incontrare nella
sua applicazione. Detto altrimenti, il lavoro distribuito di tanti
programmatori che agiscono come una community garantisce una fonte
inesauribile di innovazione.

 Ma se queste sono le premesse, perché non aderire direttamente alla
filosofia dell'open source? In fondo si tratta della stessa cosa. O no?
E se sì perché avviare lo shared source program? Houston e Matusow
rispondono che i motivi sono due: il primo è che l'open Source non
garantisce un livello adeguato di protezione dei diritti di proprietà
intellettuale sul software. Il secondo è che l'open source non
garantisce «adeguati ritorni di carattere economico». Houston sostiene
che la proprietà intellettuale va adeguatamente protetta perché è
attraverso di essa che l'industria si garantisce le risorse per
continuare ad innovare la tecnologia e a «produrre profitti per la tutta
la filiera di programmatori e rivenditori». Al contrario, conclude,
dell'open source. Secondo i rappresentanti di Microsoft, lo «shared
source permette di dare risposte adeguate ai clienti che chiedono di
essere coinvolti nel processo di sviluppo del software. Con questo tipo
di contratto commerciale sono inoltre protetti i proventi derivanti dal
copyright». La prima obiezione è che anche il software libero rende
possibile «il fare impresa», basti riflettere sul numero, relativamente
elevato, di piccole e medie aziende che fanno affari con Linux.

 Un'opinione non condivisa dai tre dirigenti della Microsoft, che
sottolineano il fatto che gli unici guadagni nell'open source provengono
dall'assistenza e dalla manutenzione: servizi che hanno costi tanto
elevati da rendere diseconomico l'utilizzo di software open source anche
se acquistato a basso costo. Ma i tre dirigenti ripetono continuamente
che per un'azienda di software il patrimonio principale, il core assett,
da difendere è «la proprietà intellettuale. Per Microsoft - spiega
Houston - la questione è trovare un punto di equilibrio tra i benefici
derivanti dalla creazione di una community intorno ai suoi prodotti e
allo stesso tempo tutelare la proprietà intellettuale». Per Houston, le
community informali di programmatori non possono sostituirsi
all'organizzazione aziendale nel creare prodotti efficienti e utili. Per
il dirigente, Linux e i prodotti Gpl non saranno «in grado di garantire
il networking e l'interoperabilità fra sistemi diversi come il pc
casalingo, le workstation aziendali, gli apparati mobili e da taschino».

 Fin qui è chiaro il punto di vista della Microsoft: Linux non può
competere con Microsoft e Microsoft non è interessata a competere con
Linux. E tuttavia la strategia dello shared source program tende a
contrastare la diffusione di una attitudine - la scrittura cooperativa
del software e la sua libera diffusione - egemone su Internet, che ha
messo in discussione un modello di circolazione del sapere basato su una
centralizzazione della sua distribuzione. In altri termini, per
Microsoft, ci deve essere un centro che definisce le regole di accesso,
mantenendo al tempo stesso il controllo sulla produzione di sapere. Lo
shared source sembra quindi la risposta a comportamenti sociali - la
cooperazione, il dono, lo scambio, il riuso del codice e delle
informazioni - di cui Gnu/Linux è l'esempio paradigmatico. La strategia
della Microsoft è tuttavia, come l'ha definita Franco Carlini su il
manifesto del 6 ottobre, una «terza via» tra software proprietario e
open source.

 Una prima perplessità: se il codice sorgente rimane di proprietà della
Microsoft, qualsiasi innovazione prodotta nell'economia di rete
innescata dalla scoietà di Bill Gates sarà a suo vantaggio. In primo
luogo, perché continuerà a detenere la proprietà intellettuale,
riducendo al tempo stesso e radicalmente gli investimenti in ricerca e
sviluppo. Ricerca e sviluppo che saranno delegati implicitamente ai suoi
clienti, i quali, conoscendo il codice sorgente, lo miglioreranno. Per
di più, è evidente che uno degli obiettivi della Microsoft è di renderli
più fedeli . Una «fidelizzazione» come la chiamano gli economisti che
altro non è che una nuova dipendenza nel senso in cui la intende Jeremy
Rifkin ne L'era dell'accesso. Secondo lo studioso americano infatti la
partita del futuro non si gioca sul possesso ma sull'accesso a beni,
merci e servizi, sia che si tratti di comunicazione a distanza, che un
videogame, l'uso di un editor di testi. Non si acquista più il bene o la
merce, ma si paga un gettone per usarle.

 E veniamo alla qualità dei prodotti. Quella del software targato
Microsoft è stata ripetutamente criticata e stigmatizzata. Rendere
partecipi i clienti del codice sorgente permetterebbe anche di
migliorare la qualità del software. In altri termini, Microsoft vorrebbe
fare ciò che è riuscito nella produzione del software libero: cooperare
per scrivere dei buoni programmi.

 Il software libero si è diffuso grazie alla convinzione che la
conoscenza, l'intelligenza inserita nei programmi per computer è di
tutti e che come tale vada condivisa. Inoltre, si è diffuso perché è
affidabile e scriverlo insieme è divertente. È questo lo rende un
fenomeno sociale. Non solo. Alla base del software libero c'è da sempre
l'idea che da questa conoscenza comune ciascuno può sviluppare il
proprio modello di «business profittevole». Ormai ci sono decine di
pubblicazioni, seminari, libri che dimostrano che software libero non è
sinonimo di gratuità. Può sembrare contraddittorio, ma è ormai certo che
orami il rifiuto del copyright è agitato anche da chi vuole sviluppare
un business nei territori di frontiera della net-economy.

 Microsoft sa meglio di chiunque altro che la vera battaglia commerciale
si gioca sugli standard (specifiche tecniche che si portano dietro tutto
un mondo di idee, valori e comportamenti d'uso) che, una volta imposti,
sono duri da cambiare. Il software libero rappresenta un nuovo treno che
si inoltra su un territorio da conquistare, ma questa volta la Microsoft
non si affanna a rincorrerlo, ma gli attacca semplicemente un altro
vagone. Quello dello shared source, appunto. I dirigenti della Microsoft
sono sintetici: «la qualità del software è un nostro obiettivo da
sempre».

 Altro argomento spinoso. Si tratta delle pressioni esercitati da
governi e istituzioni di molti paesi sempre più preoccupati di non
controllare direttamente gli strumenti della governance elettronica; e
soprattutto il timore che in alcuni paesi, come l'Italia, possa essere
introdotto per decreto il software open source nella Pubblica
Amministrazione, nella scuola, negli ospedali. Un timore confermato da
Fabio Falzea, che afferma di temere le iniziative di legge, come quella
del senatore Fiorello Cortiana, che prevedono l'adozione dell'open
source nel settore pubblico. Per il dirigente di Microsoft Italia, è una
legge che, se venisse approvata, distorcerebbe il mercato e la
concorrenza.

 L'incontro è quasi giunto al termine e vale la pena di riassumere i
temi affrontati: lo shared source non viene presentato come l'ennesima
patch aggiunta a un sistema ormai difettoso, quello del copyright sulle
idee, ma una strategia di marketing volta a «fidelizzare» il cliente
trasformandolo da utilizzatore in «partner» e scaricando all'esterno i
costi della ricerca e dello sviluppo, guadagnandoci in immagine e
riposizionando il proprio marchio (rebranding) sul mercato della
proprietà intellettuale.

 Falzea, come Houston prima di lui, ripete l'adagio. «Non temiamo la
competizione, anzi la cerchiamo, perché è il motore dell'innovazione, ma
all'interno di un mercato libero da condizionamenti di carattere
politico». Ovvia l'obiezione che l'Italia non è un paese dal libero
mercato e che anzi c'è un chiaro abuso di posizione dominante nel campo
dell'editoria e della comunicazione, che rende il nostro paese una vera
e propria anomalia fra i paesi democratici: anonalia dovuta al conflitto
d'interessi del presidente del consiglio. Silenzio in sala. Imbarazzo
c'è anche quando viene chiesto se è cambiato qualcosa nelle strategie
Microsoft dopo l'attacco alle Twin Towers? O meglio: se è vero che che i
terroristi possono usare Internet per colpire le infrastrutture
energetiche, dei trasporti, della difesa, vi sentite chiamati in causa
circa le questioni della sicurezza? La risposta è un secco no. Per
Houston «il problema è nel network, nelle infrastrutture di
comunicazione, e non riguarda Microsoft». E sulla probabile guerra
contro l'Iraq? «Scusa ma che c'entra?», rispondono quasi all'unisono.
C'entra col fatto che i computer professionals sono spesso dei liberal,
e più di una volta si sono pronunciati contro la guerra e la limitazione
delle libertà civili. Possibile che non ci siano ripercussioni anche
all'interno della Microsoft? «I nostri professionals lavorano duro, sono
efficienti. Alcuni di loro fuori dell'azienda sono impegnati in attività
sociali, ma quando si lavora, si lavora...».





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