[Discussioni] La commissione Meo secondo A. Monti
Valentina Parisi
valentina.parisi a copyzero.org
Mar 7 Dic 2004 12:48:03 CET
La pubblicazione dei risultati del lavoro della Commissione Meo è un evento
sicuramente centrale nello sviluppo di una cultura istituzionale dell’open
source. Finalmente, a quasi quattro anni dal primo invito rivolto alle
Istituzioni ad affrontare il tema (vedi E' compito delle istituzioni
pubbliche liberarci dalla schiavitù elettronica, presentato al Forum per la
società dell’informazione voluto dalla Presidenza del Consiglio nel
"lontano" 1999) un documento ufficiale traccia una linea guida e propone
strategie a un interlocutore al quale, ora più che mai, si adatta l’antica
sfida: hic Rhodus, hic saltus.
Va tuttavia rilevato che, a fronte dell’innegabile sobrietà ed equilibrio
che contraddistinguono il rapporto della Commissione Meo, non se ne registra
una altrettanto nitida definizione della prospettiva culturale e politica.
Anzi, come si vedrà, alcuni temi sono stati trattati in modo molto
superficiale e altri addirittura esclusi dall’analisi. Mentre i dati sui
quali sono state basate considerazioni e scelte sembrano avere una
attendibilità abbastanza limitata.
Cominciamo da questo ultimo punto. Il Rapporto Meo utilizza – relativamente
all’Italia – dati Assinform (cioè di un soggetto non terzo rispetto al campo
di indagine) e AIPA (il cui raggio d’azione è limitato alle amministrazioni
centrali). Ne consegue che, in realtà, il rapporto si basa su dati, nella
migliore delle ipotesi, quantomeno incompleti (con le conseguenze descritte
per esempio nell’articolo Quale "fiducia" per la sicurezza?).
Stando così le cose potrebbe essere ragionevole chiedersi quanto siano
corrette delle conclusioni basate su dati incerti. Ma anche a voler superare
questo argomento, rimangono perplessità di ordine generale, come l’eccessivo
sbilanciamento degli estensori verso una prospettiva tecno-economica.
Già la sezione "proposte" dell’executive summary si apre con un chiaro
invito a privilegiare l’aspetto del value for money e buona parte del testo
si concentra su questioni tecniche (come la tediosa elencazione delle
applicazioni open source attualmente disponibili, che avrebbe trovato
migliore collocazione in un’appendice o in un allegato, e invece occupa
intere pagine che potevano essere riservate a ulteriori approfondimenti).
Gli effetti di questa impostazione tecnicistica emergono appieno nella
sezione della ricerca, che si occupa della scuola. Argomento di cui parlo
con qualche cognizione, insegnando "Teoria dei sistemi informatici applicati
alla didattica del diritto" nella Scuola superiore per l’insegnamento
secondario delle università di Chieti e Teramo. L’esperienza fatta con i
futuri docenti di diritto ed economia ha dimostrato chiaramente che la
"questione" software libero nella scuola non riguarda soltanto gli
insegnamenti di informatica o gli istituti tecnici. Così come ha poco o
nulla a che fare con le economie di scala e il risparmio (aspetti pur
importanti in una scuola povera come quella italiana).
Le future generazioni di docenti (e, sospetto, anche quelle attuali) con le
quali ho avuto contatti diretti, vedono l’informatica, pardon, il computer,
come uno specchietto per le allodole e un mezzo per automatizzare esami e
valutazioni. Come una specie di incrocio fra un videogioco e un quiz
televisivo finalizzato a "captare" l’attenzione dei discenti. E non
stupisce, quindi, che alla prima lezione del mio corso praticamente tutti i
partecipanti si affannano a spiegare che con gli ipertesti, le banche dati e
"i powerpoint" i ragazzi si distrarrebbero di meno e imparerebbero meglio.
Quasi nessuno, alla fine del ciclo didattico, mantiene questa convinzione.
Perché, come ricorda Giancarlo Livraghi in Libertà, trasparenza e
compatibilità: non è solo un problema di software, "Il tema che va
genericamente sotto il nome di "opensource" o "software libero" non riguarda
solo i sistemi operativi o i programmi software, ma più estesamente tutti i
sistemi di gestione dell’informazione e della comunicazione. Non si tratta
solo del "codice sorgente" ma anche più in generale di trasparenza,
compatibilità e libertà dell’informazione, del dialogo, della comunicazione
in tutte le sue forme".
Dunque si tratta di costruire - grazie all’open source - un'ecologia,
meglio, una fisiologia della comunicazione e della circolazione delle idee
che consentirebbe di reificare quelle idee di pluralismo e parità di
condizioni di accesso ora confinate nel libro dei sogni. E destinate a
rimanerci non si sa per quanto grazie a una visione "proprietaria" della
didattica e della formazione.
Ma secondo la Commissione Meo l’apporto del software libero nella scuola è
sostanzialmente circoscritto al settore dell’informatica e
all’ottimizzazione del budget.
Un altro tema, tanto importante quanto ignorato, è quello del rapporto fra
open source e garanzia dei diritti individuali, con particolare riferimento
alla difesa giudiziaria. Non è - forse - argomento noto ai più, ma oggi le
indagini penali nelle quali è coinvolto un sistema informatico vengono
condotte praticamente solo tramite sistemi operativi e applicazioni
proprietarie. In altri termini, ci troviamo di fronte a dibattimenti penali
nei quali il giudice deve accettare come "prova" dati e informazioni sulla
cui provenienza, generazione, analisi e valutazione non è possibile
effettuare alcun riscontro (per approfondire vedi Attendibilità dei sistemi
di computer forensic). Questo potrebbe sembrare un discorso troppo
specialistico per essere inserito in una indagine come quella della
Commissione Meo. Basta dare un’occhiata ai lavori del gruppo di ricercatori
del progetto CTOSE (Cyber Tools for Online Search of Evidence), finanziato
dalla Commissione Europea, per capire che non è così. Oppure, per
raggiungere la stessa consapevolezza, basta difendere una persona la cui
colpevolezza sarebbe dimostrata solamente (o essenzialmente) da relazioni
automatizzate prodotte da software proprietari.
Particolarmente debole e generico, poi, è il discorso relativo ai formati.
La cui libertà e disponibilità costituisce invece proprio la chiave di volta
per realizzare una democrazia elettronica e per stimolare il mercato. Per
convincersene, basta ricordare che il protocollo che manda avanti
l’internet, il TCP/IP è stato sviluppato per conto del Governo statunitense
e da questo "liberato" e poi imposto alle aziende. E per capire quali sono i
rischi della diffusione nel settore pubblico dei formati proprietari sarebbe
bastato farsi un giro nei padiglioni di Bionova 2003. La fiera italiana
delle biotecnologie recentemente svoltasi a Padova, dove sono stati
presentati mastodontici progetti di centralizzazione di cartelle cliniche,
dati sanitari e quant’altro, senza che nessuno si fosse preso la briga di
pensare alla "sopravvivenza" dell’accessibilità alle informazioni. Destinate
a diventare incomprensibili con la dipartita di questo o quel fornitore di
tecnologia.
Tirando le somme di questi ragionamenti in ordine sparso, alla fine, è molto
forte la tentazione di considerare il Rapporto Meo un’occasione perduta.
Ma forse è una valutazione prematura che, spero, potrà essere dimostrata non
rispondente al vero.
http://www.interlex.it/pa/amonti65.htm
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Se il Prof. Fuggetta volesse commentare...
Grazie mille, Valentina.
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