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Lun 21 Giu 2004 15:16:12 CEST


Ciao.
Vi giro un articolo di Franco Carlini apparso su "Il Manifesto" di ieri.


Adriano

***

OPEN SOURCE L'EPIDEMIA A FIN DI BENE

Dall'Europa all'estremo oriente il software libero si sta propagando in
tutto il mondo. Un modello di produzione e distribuzione basato su concetti
anti-economici, come la diffusione della conoscenza e la negazione dei diritti
d'autore. E anche l'Economist si chiede: siamo al post-capitalismo? 
Il software libero ormai è usatissimo, e non solo sui poco diffusi server.
Il «pinguino» Linux gira su milioni di personal computer, telefoni cellulari,
console per videogiochi. Lo usano i governi perché costa meno e le aziende
perché è più solido di Windows. Per Steve Ballmer (il grande capo di Microsoft)
è «un cancro», ma molti imprenditori ormai ne sfruttano le possibilità


di FRANCO CARLINI

Le ultime notizie del mondo Open source vengono dall'Europa e precisamente
da due paesi che contano. A Monaco di Baviera tutti i partiti del consiglio
comunale salvo l'Unione Cristiano Sociale hanno approvato il piano di passaggio
dei 13 mila computer cittadini al sistema operativo Linux entro il 2006.
Nella fase intermedia resteranno ancora alcuni server Microsoft, ma nel
2008 tutte la applicazioni saranno «sotto Linux». 

Vecchio continente, software nuovo

In Francia venerdì scorso il ministro della Funzione pubblica, Renaud Dutreil,
ha annunciato l'intenzione d'introdurre i software aperti nei computer dell'amministrazione,
per risparmiare nei costi. Ha anche precisato all'agenzia Reuters che «non
stiamo iniziando una guerra contro Microsoft o contro le aziende americane
nel settore», ma che «la Microsoft deve tornare a essere un fornitore tra
gli altri. La competizione è aperta e la mia stima è che potremo dimezzare
almeno della metà le spese di software». Le valutazioni del ministro si
riferiscono soprattutto a un piano triennale di aggiornamento dei software
per l'ufficio, per 300 milioni di euro.

Decisioni analoghe sono state prese nei mesi scorsi da paesi come il Brasile,
la Malesia e Israele, in forme e modalità diverse ma ispirate alla stessa
filosofia di maggiore concorrenzialità e di risparmio. Nel frattempo il
sistema operativo Linux che inizialmente sembrava confinato ai server (i
potenti computer su cui s'impernia una rete informatica), si fa strada anche
in altri apparati come telefoni cellulari e lettori di musica. Insomma il
successo sembra inarrestabile.

Il fenomeno dunque non è di nicchia e lo conferma il fatto che alla questione
dell'Open source il settimanale The Economist abbia dedicato un editoriale,
la settimana scorsa, con il titolo «Oltre il capitalismo?». Vale la pena
di seguire il suo ragionamento, come al solito assai lucido, e di annotarlo.



Al di là del capitalismo?

Intanto i dati di fatto acquisiti: «È fuori discussione che l'Open source
è un buon modo di fare il software», in contrapposizione al modo proprietario
dove i codici sorgente originari sono gelosamente custoditi. Il secondo
dato di fatto è che «esso produce software sicuro, affidabile e ovviamente
economico». Il terzo elemento certo è che anche la sola presenza dei prodotti
aperti ha comunque un effetto positivo di «maggiore trasparenza»; lo testimonia
il fatto che pur mantenendo la sua ostilità ai sistemi aperti, la stessa
Microsoft ha modificato le sue politiche e oggi permette a dei partner accreditati
di accedere al suo codice, se non altro per ottimizzare le applicazioni
che al di sopra di esso devono girare.

Queste due affermazioni, abbastanza perentorie, ovviamente non piacciono
ai produttori di software chiuso, i quali le hanno contestate con varie
argomentazioni. Due fondamentalmente: la prima mette in dubbio l'economicità
del software aperto e di Linux in particolare. Si sostiene infatti che il
costo totale nel tempo (total cost of ownership) dell'adozione di Linux
sia ben più elevato di quanto i suoi tifosi sostengono perché mentre si
risparmia sulle licenze d'uso si deve spendere molto in gestione e manutenzione.

La seconda obiezione a Linux e compagni è più radicale: esso distrugge ricchezza
e rischia di mettere in crisi l'intera economia basata sui diritti di proprietà
industriale e intellettuale. Quando il capo di Microsoft, Steve Ballmer,
definì Linux «un cancro» l'espressione era certamente forte (e infatti,
saggiamente è stata abbandonata), ma proprio questo voleva segnalare: la
messa in discussione non solo ideologica, ma pratica di un modello economico.
Una messa in discussione che avveniva in maniera contagiosa, propagandosi
come un cancro da una cellula a un'altra. Se non un cancro quanto meno un'epidemia.

Questo è appunto il tema che l'editoriale dell'Economist afferra per le
corna: il modello Open «rappresenta un nuovo modello di produzione, post-capitalistico?».
Può dunque essere esteso a altri settori industriali? Può essere l'Utopia
che si realizza, trasformando o forsesovvertendo il capitalismo?



Il capitalista «flessibile»

La conclusione del settimanale, la cui fede liberista è totale, è al riguardo
negativa: «Il modello Open source non rimpiazzerà il capitalismo» e tuttavia
«la collaborazione tra larghi gruppi di persone che lavorano senza compenso
per un fine comune, che la si chiami Open source o in qualsiasi altro modo,
può essere una forza potente di bene, e dunque deve essere la benvenuta».

Va detto che, allo stato delle cose e dei rapporti di produzione esistenti,
quello dell'Economist è un atteggiamento realistico. Esso rappresenta l'aspetto
più intelligente del capitalismo, la cui ragione principale di successo
sta nella grande capacità di adattarsi ad ambienti che cambiano e a rapporti
di forza mutevoli. Il capitalista puro non ha bisogno di rigide ideologie
per fare il proprio mestiere; lascia che siano altri, gli apologeti, a rivestire
di principi e di supposti valori il suo modo di produzione e queste ideologie
servono a posteriori per legittimare quel modello agli occhi dell'opinione
pubblica. Ma nella sostanza è pronto ad adattarsi a ogni nuova opportunità,
anche a quelle che emergono dalle culture a lui antagoniste. Con due risultati:
da un lato annacqua la carica antagonista di idee e movimenti, riconducendoli
dentro il sistema, e dall'altro, nel caso per lui migliore, li trasforma
in nuove occasioni di affari.



Ritorno al futuro

Esattamente questo sta succedendo nel mondo del software, basti riandare
indietro negli anni, con un piccolo esercizio di memoria. Fino alla fine
degli anni `70 il software era aperto e condiviso; esso veniva per lo più
pensato e scritto dai suoi stessi utilizzatori, per esempio gli addetti
alla ricerca, ed era considerato pura conoscenza strumentale, che come tale
veniva diffusa e scambiata gratuitamente con i colleghi. Le aziende delle
informatica facevano soldi soprattutto vendendo l'hardware e il software
aveva al più la funzione di accessorio funzionale. L'hardware era invece
tutto proprietario e di solito incompatibile tra i diversi produttori, con
l'effetto di incatenare gli utilizzatori al singolo fornitore, magari il
grande monopolista Ibm.

Ma alla fine degli anni `70 dei giovani californiani realizzarono un sogno,
quello del personal computer, e una scelta quasi casuale della Ibm ne fece
un prodotto aperto, a differenza dei precedenti mainframe (i grandi computer).
Quella fu una tipica «innovazione distruttiva» che metteva in crisi l'intera
industria informatica, basata sui hardware proprietari, ma nello stesso
tempo apriva il campo a un settore completamente nuovo. L'intelligenza di
Bill Gates fu di capire che c'erano nuovi bisogni e consumi: software applicativi
di massa, per il grande pubblico. Ma per farlo era necessario che il software
cessare di essere a libera circolazione ma diventasse un prodotto industriale.
Non per caso il movimento che prende il nome di Free software nacque al
Massachusetts institute of technology (Mit) proprio in contrapposizione
a questi processi di chiusura: Richard Stallman se ne andò polemicamente
dal Mit indignato al vedere che persino il software delle stampanti non
era più modificabile secondo le esigenze degli utilizzatori.

Dunque non c'è niente di nuovo? Solo un ritorno all'idea del software condiviso
dei tempi d'oro? Da un lato è così, ma i ritorni e i cicli non sono mai
uguali a se stessi perché nel frattempo è arrivata una cosa che prima non
c'era. Quella cosa si chiama Internet e fa una differenza fondamentale.
Se prima i programmi venivano diffusi tra colleghi all'interno di piccole
comunità di ricerca, ora la comunità è globale: centinaia di migliaia di
persone tra di loro collegate grazie alla rete. Lo stesso sistema operativo
Linux, che Linus Torvalds mise a punto nella sua versione primitiva nel
1991, crebbe e divenne robusto grazie alla possibilità di reclutare collaboratori
entusiasti in tutto il mondo, ognuno dei quali produce righe di codice,
collauda e verifica quelle altrui. E un processo di creazione e condivisione
della conoscenza operativa che mette a frutto la diversità e persino la
lontananza e che è radicalmente diverso dalla produzione industriale tipica
della grande industria.

Internet che fa la differenza

La presenza dell'Internet è stata decisiva per la crescita dell'Open source
non solo come strumento di lavoro a distanza, ma anche come ambiente culturale
poiché in rete è normale scambiare conoscenza senza fini di lucro.

Il recente dilagare dell'Open source ben al di fuori dei confini della comunità
degli hacker alternativi ha provocato diverse reazioni nel mondo dell'industria:

(1) Numerose nuove imprese sono sorte che fanno profitti offrendo dei servizi
accessori agli utilizzatori del software aperto. Ovviamente trattandosi
di software in uso gratuito i margini di guadagno sono molto inferiori,
ma alcune di queste imprese, come Red Hat e Mandrake, hanno raggiunto dei
ragionevoli equilibri economici.

(2) Altre aziende hanno visto nel software aperto una poderosa arma concorrenziale
contro la Microsoft. La più decisa a cavalcare Linux è stata la Ibm e anche
questo è un bel paradosso: quello che era il più aggressivo monopolista
oggi spinge un prodotto aperto, in questo caso associandolo al suo hardware
e ai servizi di consulenza correlati. La decisione della Ibm di adottare
Linux ha avuto un potente effetto simbolico verso le aziende clienti: se
la Ibm lo consiglia, allora vuol dire che è una cosa seria e che ci si può
fidare.

(3) Le aziende di software che fino a ieri avevano lavorato su software
proprietari sono state costrette a mettere in atto politiche di maggiore
apertura. Certamente lo sta facendo la Microsoft, sempre sensibile a cogliere
i segnali che le arrivano dal mercato: non solo alcuni codici di Windows
ora sono disponibili, ma soprattutto scendono i prezzi dei suoi prodotti.
Questa è la forza della concorrenza, che talora viene usata strumentalmente
dai clienti per ottenere sconti: «Stiamo pensando di passare a Linux, ma
se ci offrite delle condizioni migliori potremmo restare con voi».

(4) I produttori di computer più importanti, come Dell e Hp ormai offrono
normalmente dei Pc corredati dal sistema operativo Linux. Lo fanno per raccogliere
le sollecitazioni della domanda, ma anche per non essere agganciati obbligatoriamente
alla sola Microsoft, la quale oltre a tutto è stata vincolata dalle cause
antitrust in America e in Europa a rilassare i suoi contratti di licenza,
rendendendoli meno esclusivi.

(5) Ormai il mondo del software non è più diviso in due: aperto contro chiuso.
Esiste invece un'ampia gamma di soluzioni intermedie, come quelle che va
praticando la Sun, altra storica casa di computer californiana. Le sue meravigliose
stazioni di lavoro tradizionalmente usano un sistema operativo proprietario,
chiamato Solaris. Per frenare l'emorragia la Sun ha appena annunciato che
anche Solaris diventerà almeno un po' aperto, così come lo è il linguaggio
Java che la stessa Sun inventò e che ormai è diffusissimo. Anche questa
è una buona notizia e conferma che nel mondo dell'informatica gli scossoni
continuano.







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