[Discussioni] seminario Universita' e brevetti -- relazione
Francesco Potorti`
pot a softwarelibero.it
Lun 23 Dic 2002 00:52:17 CET
Premessa: chiedo scusa per quanto questi messaggi stanno diventando
lunghi. Ho cercato di tagliare il più possibile per ritornare in tema.
>> >Il problema è che ormai non so più che cosa esattamente si intenda per
>> >brevetti in generale, c'è un forte movimento *in tutti i campi di
>> >applicazione del brevetto industriale* a brevettare le idee e non le
>> >soluzioni tecniche.
>> Forse perché la distinzione è sfumata?
>Per niente, c'è una bella differenza tra brevettare l'idea di
>teletrasporto e quella specifica implementazione del teletrasporto che
>hai realizzato.
Sì, certo. Quel che intendevo è: ci stiamo allontanando sempre più da
una società industriale, e stiamo andando verso una società
dell'informazione. I processi industriali non hanno più il monopolio
dell'importanza dell'innovazione, e sono sempre più affiancati dalle
tecniche di manipolazione dei dati. Le due cose spesso non sono
separate, ma si fondono. Ogni realizzazione industriale non banale
contiene quantità più o meno grandi di software che è funzionale a
quella certa realizzazione. Il confine fra software e industria diventa
sfumato.
>Magari fosse così ... ma nel campo del software il difficile è scrivere
>il codice non descrivere cosa deve fare il programma.
Perché dici questo? Mi sembrerebbe ovvio il contrario.
>> No, non è così. La gran parte degli articoli pubblicati sono da buttare
>> nel cesso.
>No per due motivi.
>1. non essendoci un monopolio l'articolo ti torna comunque utile, puoi
>andare avanti.
Mentre il brevetto ha la potenzialità di bloccare una strada di ricerca,
e questo che vuoi dire? Se è così, credo che tu abbia ragione.
>> Credo che sia il contrario. La quantità di ricerca di base da buttare è
>> altissima.
>Spiegami in che senso, detta così questa frase non ha molto senso.
Se guardi al passato, per arrivare a certe conclusioni nella teoria che
ora sono date per acquisite, sono state esplorate tantissime altre
strade rivelatasi a fondo cieco. Ricerca da buttare. Nel senso che poi
una di quelle strade in futuro si potrà rivelare utile per
qualcos'altro, ma succede in un caso su cento. La maggior parte è e
sarà sempre da buttare (ma non si sa mai a priori quale).
Per questo dico che, analogamente alla produzione brevettuale, la
produzione pubblicistica è in gran parte da buttare, ma per entrambe le
produzioni questo è un problema inevitabile. Controllabile in parte, ma
inevitabile.
Il tutto per mettere in rilievo che non è ovvio che i due binari della
ricerca pubblica proposti al seminario come paralleli (pubblicazioni e
brevetti) siano così diversi nei modi e negli esiti.
>> >In italia non c'è più investimento nell'industria, si pensa
>> >esclusivamente a massimizzare i profitti a breve termine. Questo è il
>> >male dell'italia.
>> È probabilmente uno dei mali, ma la ricerca fa la sua, e parecchio. Ti
>> elenco alcuni indizi. In Italia si spende la metà (rispetto al PIL) in
>> ricerca rispetto alla media altri paesi industrializzati.
>Questa è conseguenza diretta della mia affermazione, chi vuole
>realizzare non investe e non fa ricerca.
Parlo della ricerca pubblica, quella che poi dovrebbe avere ricadute
industriali. La ricerca privata ha le sue grosse colpe, ma la ricerca
pubblica in Italia ne ha probabilmente altrettante.
>> La mentalità più comune fra gli accademici è di non volersi sporcare
>> le mani colla tecnologia, perché quello è lavoro di bassa manovalanza.
>Non so quali accademici conosci, non è una cosa diffusa in tutti i
>campi.
Ne conosco un po', visto che ci lavoro, e ne sento parlare spesso, e
oltretutto in un campo ingegneristico, dove la diffidenza verso la
pratica è più bassa che nel resto dell'accademia. Non ti dico cosa mi
raccontano i colleghi che lavorano in campi tradizionalmente più
teorici, come la storia.
>> >> Non ha senso dire che la ricerca pubblica si debba occupare solo
>> >> di ricerca di base.
>> >Dire, solo probabilmente è eccessivo
>> Non è «probabilmente» «eccessivo» è *sicuramente* *assurdo*.
>E' una tua opinione.
È un'opinione ampiamente condivisa da chi conosce il sistema della
ricerca in generale (non solo in Italia). A dir la verità, non ho mai
sentito alcuno che pensasse il contrario, è una cosa data per scontata
oggi. Credo che il tuo punto di vista fosse quello comune trent'anni
fa.
Comunque, mi sa che stiamo andando fuori tema. Sbaglio?
>Certo, ma ricordati che stiamo parlando di brevetti ottenuti da ricerche
>fatte con finanziamento pubblico, il mio discorso non è generale, ma
>mirato al dicorso del brevetto. Se le ricerche sono finanziate con
>denaro pubblico, i risultati devono essere poi disponibili a tutti,
>senza dover pagare dazio a questo o a quello. O quantomeno fortemente
>regolati: nessuna discriminazione, prezzo accessibile a tutti, durata
>molto breve.
Questo potrebbe avere un senso. Certamente per la non discriminazione,
alla durata differenziata credo poco.
>> >> È vero, questo è un problema. Dall'altra faccia della medaglia c'è il
>> >> problema opposto: «perché nessuno si è sognato di sviluppare un
>> >> dispositivo commerciabile usando la vostra idea? Perché, non essendo
>> >> brevettata, e non brevettabile perché è pubblica, nessuno ci
>> >> rischierebbe una lira».
>> >Se è una cosa utile di cui c'è richiesta la si fa.
>> Ti sbagli.
>Ti sbagli tu.
Io parlo per esperienza diretta mia personale e di colleghi, per
seminari tenuti da esperti del settore che lavorano sui finanziamenti
alle nuove società, e per lunghi discorsi fatti con l'ufficio del CNR
che si occupa dei brevetti. Quali sono le tue fonti?
>E se i metodi sono trovati con _fondi pubblici_ non c'è più il rischio
>da a mmortizzare, e il NON brevettarli promuove subito la competizione e
>quindi rende più velocemente disponibile la tecnologia a tutti a basso
>costo.
Da un'idea alla sua realizzazione pratica i passi sono molti. Anche nel
caso (in Italia putroppo ancora raro) di un istituto di ricerca che
arrivi a realizzare un prototipo funzionante che implementi una certa
tecnologia, da lì al prodotto vendibile c'è almeno ancora la ricerca di
mercato, l'ingegnerizzazione e la commercializzazione, tutte cose che
costano, e che costituiscono quel rischio che tu dici non esserci: il
prodotto può essere ben accolto dal mercato o no, per i motivi più
disparati. E questo non si sa mai a priori.
In tutto questo discorso a me stanno a cuore essenzialmente due cose:
1) dalla tua presentazione e da documenti FSF e dintorni, ho sempre
appreso che in Europa i brevetti software non sono possibili, e che
li vogliono far passare. Da Luigi Boggio apprendo che sono
possibili, e in effetti già passano. Opinioni a parte (che
l'interpretazione sia contorta o meno) qual è la verità?
2) i tre gatti che hanno letto fin qui sono d'accordo sul fatto che la
principale, forse unica differenza significativa dei brevetti
software rispetto agli altri sta nel fatto che, mentre il danno che
portano alla società è simile quello degli altri brevetti, il
vantaggio è minore, perché il rischio che ci si deve accollare per
industrializzare un brevetto software è minore?
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